Al volume “European Football During the Second World War” ha collaborato anche il nostro socio Marco Impiglia. Pubblichiamo qui sotto un breve resoconto del suo intervento.
IL FOOTBALL A ROMA DURANTE L’OCCUPAZIONE TEDESCA E ANGLO-AMERICANA (1943-1945)
Sebbene la storiografia del calcio italiano abbia avuto un’accelerazione in positivo negli ultimi tempi, grazie anche all’apporto di studiosi britannici e francesi, poco è ancora stato scritto sul periodo più crudo della seconda guerra mondiale, subito dopo la fine della dittatura di Mussolini. C’è un motivo preciso: la distruzione quasi totale della documentazione della Federazione Italiana Giuoco Calcio riguardante il periodo in questione non lascia molto margine di ricerca. Il mio saggio – inserito in un volume dapprima pubblicato in lingua tedesca ed ora, dopo aver vinto un premio internazionale, tradotto da una casa editrice statunitense – si limita a delineare un quadro complessivo dei cosiddetti “Campionati di guerra”, con particolare riferimento alla città di Roma, avvalendosi di testimonianze orali raccolte una ventina di anni or sono. Per comodità di esposizione, si divide in due parti: stagione 1943-44 e stagione 1944-45.
Da un’analisi sommaria, nel saggio ho avanzato due considerazioni di base: 1) l’industria del calcio in Italia non si è fermata mai in tempo di guerra, e quasi tutte le migliori squadre hanno continuato a disputare tornei anche nei frangenti più difficili; 2) l’organizzazione dei campionati professionistici e semiprofessionistici modellata in Era fascista si è sfaldata solo nel 1943, lasciando spazio a nuove forme organizzative sia per lo svolgimento dei campionati maggiori sia per la distribuzione degli utili economici. In sostanza, c’è stato un ritorno ad un livello molto simile a quello dei primi anni Venti.
Anche nella stagione 1941-42 tutte le rilevazioni sull’affluenza negli stadi non denunciano sintomi di flessione. Nessun appuntamento calcistico di alto profilo fu differito, malgrado le crescenti difficoltà dei trasporti. La AS Roma si aggiudicò il campionato: prima società del centro-sud a vincere lo scudetto. Alcuni storici sono concordi nell’affermare che i “giallorossi” riuscirono nell’impresa grazie al fatto che Roma fu una delle poche grandi città a non subire bombardamenti fino all’estate del 1943. Dall’utunno del 1942, infatti, il triangolo storico del calcio italiano – Torino, Milano e Genova – divenne oggetto di attacchi aerei. Il Calcio Illustrato, il più seguito magazine sportivo del Paese, rilevò un dato statistico sorprendente: il record assoluto di affluenza sugli spalti rispetto ai 40 campionati precedenti.
Assai diverso fu l’andamento complessivo dei campionati svoltisi nella stagione 1942-43. Drastico fu il calo del pubblico, e moltissime furono le partite rinviate o interrotte per via dei bombardamenti aerei. Il campionato unico 1943-44, misto di squadre di Serie A, B, C, fu il campionato che segnò l’indietreggiamento delle lancette dell’orologio all’ora pre-fascista. Due i fenomeni che lo riguardarono strettamente: 1) il ritorno degli assi in provincia, col conseguente pareggiamento dei valori dei team blasonati e di quelli non blasonati; 2) la diffusa aziendalizzazione dei club sportivi. Il livellamento dei valori fu assai evidente nel settentrione, dove squadre come il Varese (che annoverava Giuseppe Meazza, il popolare “Balilla”), la Pro Patria di Busto Arsizio (che aveva Annibale Frossi, l’eroe di Berlino 1936), il Brescia, la Biellese, il Cesena o l’Ampelea di Isola d’Istria batterono avversarie di caratura tradizionalmente superiore come il Milan, la Juventus, il Bologna o l’Udinese. Le difficoltà logistiche sconvolsero sia la scala dei valori che i normali canoni organizzativi. Altre anomalie furono l’alternante disponibilità dei giocatori, con parecchie gare disputate a numero ridotto di partecipanti, e l’intemperanza costante dei tifosi, non più contenibile dalle scarsamente presenti forze dell’ordine. Moltissime furono le partite sospese.
Per quel che riguarda la aziendalizzazione dei club, trattasi di un fenomeno che non riporta direttamente all’età liberale, ma piuttosto va considerato come un’amplificazione di un trend avvertibile in piena epoca fascista. Nel 1934-35, infatti, delle 610 squadre affiliate alla Figc (593 in Italia e 17 nelle colonie estere) circa il 20% erano già collegabili a gruppi sportivi aziendali. Nel quinquennio successivo, la sigla Ond, Opera Nazionale Dopolavoro, comparve sempre di più nel titolo dei club polisportivi. Questo fenomeno originò da un’intesa tra il Coni e l’Ond avvenuta nel 1936, in base alla quale l’Opera cambiò il suo inquadramento da meramente ricreativo a ricreativo-agonistico e si impegnò a firmare singoli accordi con le federazioni sportive. L’accordo Ond-Figc comportò un vistoso aumento delle squadre calcistiche nascenti come sezioni di gruppi sportivi legati ad aziende e affiliati all’Ond, l’ente che si occupava del tempo libero dei lavoratori. Con l’entrata in guerra, la crisi delle società sportive di marca non aziendale o militare-statale si accentuò, così che molti club, per non rischiare di sparire, si agganciarono a realtà dopolavoristiche. La connessione footballer-impiegato-operaio divenne il modello cardine dei primi anni Quaranta; uno status non dissimile da quello dei calciatori sovietici dello stesso periodo.
Devo aggiungere che la mia vecchia tesi di laurea sul Dopolavoro e lo sport in era fascista, discussa nel 1991 a Tor Vergata, mi ha aiutato a delineare questi ultimi sviluppi, fatto apprezzato da uno dei curatori, il prof. Herzog.
Marco Impiglia